I bulini di MARCANTONIO RAIMONDI tra riproduzione, contraffazione e interpretazione

20240330_182247Ho acquistato questa incisione di Marcantonio Raimondi (1480?/1534?) per una cifra molto contenuta: come ben sanno i collezionisti, lo stato di conservazione del foglio – pessimo in questo caso – deprezza enormemente il valore di una stampa, anche se sulla sua pelle sono passati i secoli. Non basta avere cinquecento anni, devi anche portarli bene, dice il mercato del collezionismo. La storia di questa incisione è però piuttosto interessante, così come quella del suo autore: alla fine i difetti dovuti al tempo e all’incuria non mi hanno trattenuta, anche se sono perfettamente consapevole di non aver fatto un buon affare, né di poterla agevolmente rivendere un domani viste le sue condizioni.

Si tratta di una copia straordinariamente fedele di una xilografia di Albrecht Dürer, La Circoncisione di Cristo, appartenente alla serie di 20 della Vita della Vergine, realizzata dall’incisore tedesco fra il 1502 e il 1511; ha le medesime dimensioni dell’originale ed è realizzata nello stesso verso, ma su un supporto diverso (il rame) e con una tecnica diversa (il bulino). Fin qui niente di grave: in tutti i secoli, fino all’invenzione della fotografia, le stampe di maggior successo dei maestri sono state copiate, nello stesso verso o in controparte; gli incisori copisti però aggiungevano i propri monogrammi o inserivano informazioni al di sotto della parte incisa che chiarivano il loro intervento di riproduzione. Nella copia realizzata da Marcantonio Raimondi, sono omesse le informazioni sul copista mantenendo inalterato il monogramma di Dürer. La copia era dunque quasi indistinguibile dall’originale e anche un occhio esperto avrebbe potuto  facilmente essere tratto in inganno, soprattutto perché a quell’epoca vi erano poche occasioni di poterle confrontare con le originali. Oggi si parlerebbe di contraffazione. Allora però il diritto d’autore era un concetto sfumato, ancora lontano da una definizione normativa: gli incisori potevano difendersi dal plagio con l’apposizione del proprio monogramma e i copisti si attenevano per lo più a una prassi di trasparenza delle informazioni, come possiamo vedere nel caso di quest’altra celebre incisione di Dürer.

                             La Melancholia I di Dürer e accanto una replica del 1602 di Johan Wierix: in                     piccolo, sotto l’incisione, la scritta Johan Wirecx Fecit Ann.1602

download-4

Si sa per certo che le xilografie di Dürer circolassero in Italia almeno fin dal 1497, grazie ad una diffusa rete di mercanti e venditori ambulanti; si sa anche che riscuotessero un grande interesse presso i collezionisti e gli artisti dell’epoca: questi ultimi le acquistavano per aggiornare il proprio repertorio di immagini o per autentico interesse nei confronti delle novità della produzione d’oltralpe. Numerosi sono i casi di dipinti o di incisioni italiane nei cui particolari sono evidenti gli influssi delle composizioni o delle invenzioni formali di Dürer circolati grazie alle sue stampe. E’ giusto però ricordare che, con quasi la stessa frequenza, le incisioni degli artisti italiani (Mantegna, Pollaiolo e Jacopo de’ Barbari, ad esempio) circolavano in Germania: lo scambio era continuo e fecondo. Come osserva Giovanni Maria Fara nel suo saggio “Albrecht Dürer, originali, copie, derivazioni” (…) la stampa è stata un acceleratore di scambi fra le due realtà culturali.

Gli studiosi concordano nel  ritenere che Marcantonio Raimondi abbia inciso a bulino la mia ed altre copie della serie Vita della Vergine durante il suo soggiorno a Venezia, fra il 1506 e il 1509. A quell’epoca Dürer aveva completato soltanto 17 tavole della serie completa, che nella versione finale è composta da 19 + il frontespizio. Le ultime due tavole e il frontespizio furono aggiunte nel 1510, appena prima della pubblicazione definitiva con l’aggiunta del testo, avvenuta nel 1511. Questo spiega perché Raimondi realizzò la copia di sole 17 tavole della serie completa di 20. Nel caso di Raimondi, a tutt’oggi non è provato che la copia delle tavole di Dürer (sfalsata peraltro solo di qualche anno rispetto alla realizzazione degli originali) sia stata un operazione volutamente fraudolenta o se si sia trattato di emulazione, al solo scopo di perfezionarsi e confrontarsi con un maestro indiscusso dell’incisione, portatore di rilevanti novità formali e tecniche. Vasari ci racconta che Raimondi acquistò le stampe e spese in dette carte quasi quanti danari aveva portati da Bologna. E’ ragionevole immaginare che il giovane incisore di origine bolognese, appena arrivato a Venezia in cerca di lavoro, sia rimasto affascinato dalle xilografe di Dürer che circolavano nei mercati, le abbia acquistate per studiarle, magari abbia poi provato a copiarle e infine pensato di venderle ricavandoci qualcosa. Chissà come è andata veramente. Purtroppo non ci sono informazioni certe e ci si limita a prendere con le pinze quelle riportate da Vasari, in alcuni punti imprecise e in altri lacunose.

La xilografia di Dürer e il bulino di Raimondi a confronto

Quella che sappiamo per certa, invece, è la reazione di Dürer: avvisato (forse dagli stessi mercanti che vendevano le sue stampe) che circolassero copie delle sue incisioni, decise di rivolgersi al Senato della Repubblica di Venezia: si tratta con ogni probabilità del primo procedimento per contraffazione a noi noto. Secondo lo studioso Fara, questa denuncia avvenne dopo il 1511 e non portò ad alcuna condanna o multa al Raimondi: il tribunale si limitò a fargli un ammonimento e a vietargli d’ora in avanti di copiare altre opere del maestro tedesco contestualmente al suo monogramma. Nel Catalogo di una raccolta di stampe antiche (1824), l’autore Luigi Malaspina sostiene che fu obbligato anche a inserire nella matrice delle stampe, in basso, un numero progressivo, per differenziarle rispetto a quelle di Dürer. Il numero, in effetti, si ritrova inciso in tutte le 17 matrici in rame. Il Raimondi se la cavò dunque con poco, con buona pace di Dürer, che su questo argomento era decisamente più intransigente. Qualche anno prima non aveva esitato a ricorrere a minacce pubbliche per tutelarsi dai falsari: Guai a voi – aveva scritto all’inizio di una delle sue raccolte di incisioni – che insidiosamente rubate il frutto del lavoro e del genio altrui; guardatevi dal mettere mano avventata su quest’opera che ci appartiene. E qualche anno dopo non esiterà a richiedere nuovamente l’intervento di un tribunale, quello di Norimberga, per accusare di plagio un altro incisore tedesco, reo di aver copiato fraudolentemente alcuni suoi fogli. 

In realtà Raimondi non smise mai totalmente di copiare le opere di Dürer: qualche anno dopo replicò alcune tavole della Piccola Passione – questa volta però omettendone il monogramma, come prescritto – e continuò a studiarne assiduamente le opere, soprattutto  la tecnica di intaglio, innovativa ed efficace nella resa del chiaroscuro e nella varietà dei segni incisi. Lo studio del maestro tedesco, insieme all’assidua pratica del disegno in cui eccelleva naturalmente, lo trasformarono in pochi anni in qualcosa di più che un semplice copista: il giovane e brillante incisore di nielli, formatosi a Bologna nella bottega di Francesco Francia e ormai virtuoso del bulino, avrebbe di lì a poco potuto dimostrare il proprio talento mettendolo a servizio di uno dei grandi maestri del Rinascimento.

Anche questa nuova fase della vita di Marcantonio Raimondi è piena di supposizioni, mancando purtroppo informazioni certe. Dopo gli anni a Venezia e il soggiorno di pochi mesi a Firenze, sappiamo che arrivò a Roma nel 1510, attratto come tanti altri artisti dalle notizie dello stato fiorente delle arti in questa città, dalle ricche committenze e dalle grandi opportunità professionali. Come sperava, trovò lavoro e fortuna, che si personificarono niente di meno che nella figura dell’artista di maggior successo del momento, Raffaello Sanzio. Si dice che sia stato presentato al maestro da Giulio Romano, che era il suo collaboratore prediletto. Vasari racconta che Raffaello gli diede un suo disegno da incidere, come prova, e poiché molto soddisfatto del suo lavoro, lo abbia poi immediatamente aggregato come incisore ufficiale all’affollata sua schiera di collaboratori e aiutanti. Lo studioso Delaborde, che ha scritto nel 1887 una monografia su Marcantonio Raimondi che ancora oggi è considerata la più completa sull’artista, sostiene comunque che la fiducia immediata accordata da Raffaello all’ancora poco noto incisore bolognese non fosse poi così azzardata, dato che all’inizio del XVI secolo l’incisione a bulino era poco praticata a Roma e dunque non c’erano concorrenti. Di certo Raffaello si era reso conto dell’importanza di poter disporre di buone incisioni di riproduzione, che erano un ottimo modo per pubblicizzare il proprio lavoro e amplificarne il successo.

La vicinanza a un mostro sacro come Raffaello, l’onore di tradurre i suoi disegni, hanno collocato d’ufficio Marcantonio Raimondi ad un livello diverso rispetto a quello degli altri incisori suoi contemporanei, come se fosse stato illuminato dal riflesso del genio. Prova ne è che lo stesso Vasari, poco interessato al mondo dell’incisione, gli ha comunque dedicato un capitolo nelle sue Vite, unico incisore fra pittori, scultori e architetti. Sempre Vasari ci racconta che quando apparvero le prime incisioni di Marcantonio dai disegni di Raffaello se ne stupì tutta Roma. Troviamo gli stessi toni entusiastici in Delaborde, quando scrive che (…) fu un’arte mirabilmente colta e ardita insieme (quella) che Marcantonio introdusse a Roma e che, fin dall’inizio, si elevò al livello di perfezione a cui era appena giunta la pittura contemporanea. L’elemento interessante dell’attività di Raimondi come traduttore ufficiale di Raffaello è che, contrariamente a quanto si può pensare, non ha inciso le opere finite del maestro, ma più spesso gli schizzi o i disegni preparatori: alcuni non sono più esistenti (come nel caso del Giudizio di Paride), altri sono differenti dall’opera finita (vedi Il Parnaso delle Stanze Vaticane); altre volte ha inserito di propria mano dettagli di fondo inesistenti nei disegni di Raffaello (per esempio nella Strage degli Innocenti) o ha tradotto col segno lineare del bulino schizzi e disegni che non erano stati realizzati appositamente per l’incisione, dunque con un notevole margine di libertà.

Il Giudizio di Paride. Il disegno originale di Raffaello non esiste più, ma da questa incisione, soprattutto dal gruppo di figure sulla destra, prese spunto Manet per il suo Dejeuner sur l’herbe

E’ difficile spiegarsi come mai Raffaello gli abbia accordato tutta questa libertà di interpretazione, visto che le incisioni erano il suo biglietto da visita per un pubblico allargato. Delaborde avanza l’ipotesi che nei primi decenni del XVI secolo l’incisione fosse considerata ancora un campo piuttosto libero di espressione e di sperimentazione ed è solo nei decenni successivi che questo ambito fluido di incisori/interpreti andrà a strutturarsi in un sistema organizzato di botteghe di artigiani, dediti solo alla riproduzione maniacalmente fedele di opere altrui. Di certo il rapporto fra i due dovette essere solido e rispettoso delle reciproche competenze. E’ molto credibile che Raimondi abbia vissuto nella bottega di Raffaello insieme alla falange di collaboratori e aiutanti che lo circondavano, se non addirittura a casa sua, come faceva il preferito Giulio Romano. Tra l’altro era proprio nella bottega che venivano stampate e vendute le incisioni di Raimondi, si dice sotto la supervisione di Bavero de’ Carrocci, detto il Baviera, uomo di fiducia di Raffaello; quest’ultimo invece era del tutto disinteressato – scrive Delaborde – alle conseguenze che avrebbe potuto avere, dal punto di vista dei profitti pecuniari, la pubblicità data dall’incisione alle sue opere. L’ulteriore onore che il suo nome guadagnava gli bastava; il resto lo lasciò generosamente ai suoi due assistenti. Marcantonio fu, per ogni opera, pagato da lui stesso, e dal canto suo Baviera si trovò senza la borsa ma messo in possesso dei rami sui quali aveva lavorato l’incisore. 

La morte improvvisa di Raffaello nel 1520 chiuse bruscamente il periodo più fecondo della sua attività di incisore e sferrò una spallata alla sua carriera professionale, obbligandolo a trovare nuove collaborazioni; all’inizio, in modo del tutto logico, restò legato agli artisti della cerchia di Raffaello, in primo luogo a Giulio Romano; la sua attività professionale, che poteva a quel punto continuare in falso piano, lentamente invece si contrasse, fino ad obbligarlo ad accontentarsi anche di committenze minori e marginali; la sua carriera, però, invece di chiudersi in sordina come quella di tanti altri stimati artisti, si chiuse con un’altra vicenda dai contorni poco chiari, che lo mise di nuovo al confine della liceità, proprio come era stata quella che ne aveva segnato l’inizio. Ripercorrendo oggi la vita di Marcantonio Raimondi, sembra quasi che abbia avuto una predisposizione naturale a mettersi nei guai.

I guai in questo caso arrivarono con la realizzazione di una serie di incisioni pornografiche, tratte da disegni di Giulio Romano, chiamata I modi, Le Posture. Completata verso la fine del 1524 e immediatamente stampata – neanche troppo di nascosto – a Roma, la serie raffigurava una coppia di amanti in varie posizioni di amplesso. Le 16 tavole suscitarono grande scandalo, peraltro perfettamente simmetrico al loro clamoroso, ma clandestino, successo. Cercando di contestualizzare questa impresa o di cercarne le motivazioni, Delaborde ci racconta che Roma in quell’anno era da poco uscita dal flagello della peste che aveva lasciato in coloro che aveva risparmiato nient’altro che uno sfrenato bisogno di piacere, come compensazione delle recenti angosce. Ovunque non vi erano che gioiosi incontri e feste, queste talvolta rinnovate da antiche consuetudini meno edificanti (…) Benvenuto Cellini nelle sue memorie fornisce dettagli (…) su quanto avveniva in una società detta “dei Corvi” (di cui facevano parte molti artisti e scultori della cerchia di Raffaello). Forse, seguendo l’esempio (di questi artisti), si era affiliato alla corporazione più che epicurea in questione; forse lui e Giulio Romano avevano tratto da questa atmosfera l’idea di celebrare con sfacciata compiacenza i misteri più segreti della dissolutezza. Tutte ipotesi. Non conoscendone con certezza le reali motivazioni, possiamo solo considerare quanto l’iniziativa fosse quanto meno avventata: nella città santa ed eterna nessun Pontefice avrebbe potuto tollerare immagini viziose in libera circolazione: l’unione carnale, secondo la Chiesa, era finalizzata alla procreazione, non certo al piacere sfrenato. Vasari racconta comunque con disapprovazione che gli emissari di Papa Clemente VII, sguinzagliati in tutta Roma per sequestrare e distruggere queste stampe, le trovarono ovunque si presentassero, anche nei luoghi in cui meno ci si aspettava di trovarle. 

Marcantonio Raimondi fu arrestato e gettato in carcere per alcuni mesi, unico però a pagarne le conseguenze. Gli altri artefici dell’impresa riuscirono a restarne fuori: l’inventore materiale dei disegni, ovvero Giulio Romano, si era fortunosamente poco prima spostato a Mantova alla corte dei Gonzaga (forse intuendo i guai in arrivo); lo stampatore, il Baviera, riuscì invece a restare nell’ombra, anche se il successo di questo genere di stampe lo invogliò in seguito a stampare altre serie licenziose, come quella degli Amori degli Dei di Gian Giacomo Caraglio (su disegni di Perin del Vaga e Rosso Fiorentino) nel 1526 e quella Degli amorosi diletti degli Dei di Giulio Bonasone, entrambe precorritrici della famosa serie Le lascivie di Agostino Carracci (qui), stampata alla fine del secolo. Come mai queste altre tre serie, altrettanto pruriginose, non hanno avuto la medesima censura? E’ presto detto: i personaggi raffigurati erano gli Dei, non uomini e donne comuni, e questo bastava per rendere i loro amorosi diletti più accettabili agli occhi della Chiesa.

La diffusione de I Modi non fu comunque stroncata in modo definitivo dalla censura ecclesiastica: nel 1525 Pietro Aretino, che si trovava a Mantova alla corte dei Gonzaga insieme a Giulio Romano, ispirato – si dice – da quelle 16 immagini lascive, compose per ciascuna un sonetto altrettanto licenzioso; i suoi Sonetti Lussuriosi furono pubblicati a Venezia nel 1527 corredati da xilografie tratte in controparte dalle stampe di Marcantonio Raimondi, già allora rarissime e impossibili da duplicare, visto che le matrici in rame erano state distrutte. Il libretto fu stampato e pubblicato clandestinamente in numerosissime copie che girarono sottobanco per tutta l’Europa. Di questa pubblicazione, come delle pochissime stampe originali forse sopravvissute di Raimondi, si perse traccia nei secoli successivi, anche se esistono documenti del XVII e XVIII secolo che sembrano attestarne qualche avvistamento sparso qua e là; a riprova del successo mai sopito e della rarità, divennero nei secoli successivi oggetto di ricerche morbose da parte dei collezionisti. Difficile dire se qualche copia sopravvisse alla furia di Clemente VII, ma oggi sembrano essere giunti fino a noi solo 9 frammenti (epurati delle parti più sconvenienti), conservati al British Museum, sulla cui autenticità non tutti gli studiosi giurano: per qualcuno sono una riedizione successiva di Agostino Veneziano, allievo di Marcantonio Raimondi. 

I sedici sonetti di Pietro Aretino corredati dalle xilografie tratte dalle incisioni di Marcantonio Raimondi
I Nove frammenti conservati al British Museum forse tratti dalle stampe originali di Raimondi. Per alcuni studiosi sono copie successive di Agostino Veneziano.

Gli ultimi anni di vita del nostro incisore furono ulteriormente complicati dall’intrecciarsi con avvenimenti storici drammatici. Nel 1527 Roma subì l’ultimo e più grave saccheggio della sua storia: durante il Sacco di Roma furono uccisi 20.000 cittadini, 10.000 fuggirono, 30.000 morirono per la peste riportata in città dalle truppe dei Lanzichenecchi. Vasari racconta che Raimondi venne ferito, quindi rapito da un gruppo di predoni e rilasciato dopo il pagamento di un riscatto che prosciugò le sue ultime risorse economiche. Riuscì a fuggire a Bologna, ma lì si perdono le sue tracce. In un brano di una commedia di Pietro Aretino del 1534 si parla di lui come di un uomo appartenente al passato, dunque la sua morte si colloca fra il 1527 e il 1534, incerta come la sua data di nascita.

La carenza di notizie biografiche documentate che caratterizza tutta la vita di Marcantonio si contrappone alla ricchezza di studi critici sulla sua produzione incisoria e sulla sua figura di artista: i giudizi sono stati molto vari e oscillanti: chi lo ha sminuito, sottolineandone solo il ruolo di copista, abile ma privo di inventiva e creatività proprie; chi invece ne ha riconosciuto il fondamentale ruolo di innovatore della tecnica e maestro di un buon numero di incisori di qualità dei decenni successivi (Marco Dente e Agostino Veneziano in primis, ma anche Gian Giacomo Caraglio); chi infine ne ha ricordato l’abilità come disegnatore indipendente e dunque anche il ruolo attivo e sensibile di interprete e traduttore di Raffaello. Oggi credo che il mondo sempre più esiguo dei collezionisti lo releghi per lo più nella grande schiera degli incisori di riproduzione, premiando solo le sue incisioni di maggiore qualità, meglio se in edizioni coeve e in perfette condizioni.

Tornando alla mia Circoncisione, ho scoperto che le lastre originali sono conservate alla Calcoteca dell’Istituto Centrale per la Grafica. Benvenuto Disertori, in un suo saggio del 1927 (I rami raimondeschi alla Regia Calcografia – Notizia aggiunta al Bartsch) scrive che erano state un acquisto abbastanza recente (forse dell’Ottocento?), che erano arrivate in buone condizioni, ma che versavano in quel momento in stato pietoso, per colpa della scellerata decisione della Regia Calcografia, in tempi a lui recentissimi, di stamparle e ristamparle per venderne le edizioni a vile prezzo, senza prevederne prima l’acciaiatura. Dunque sono circolate sul mercato brutte ristampe della fine dell’Ottocento o dei primi del Novecento, probabilmente su carta altrettanto dozzinale. La mia copia sembra stampata su carta sottile vergellata. Dico sembra perché è incollata su un vecchio supporto. Non è sicuramente una stampa del primo Cinquecento, il nero non è più brillante e ricco di toni; sembra piuttosto una stampa successiva un po’ stanca, magari della fine del XVI o dell’inizio del XVII secolo. Di certo però non è una riedizione ottocentesca. Il fatto che sia più antica è avvalorato dal fatto che presenta strappi in più punti, malamente rabberciati con l’incollatura su un altro foglio di carta vergellata, nel quale in controluce è presente una filigrana con cerchio sormontato tra un trifoglio: dalle prime ricerche in rete, questo tipo di filigrana risulterebbe utilizzata fra il 1650 e il 1750 in ambito bolognese. Anche il maldestro intervento di restauro sarebbe dunque datato.

Per chi volesse approfondire, in rete si trova il saggio di Delaborde (qui), che seppur datato, è comunque accurato nelle notizie biografiche e ricco di osservazioni critiche. Per chi volesse approfondire invece la storia de I Modi suggerisco il breve saggio I Modi. Giulio Romano e gli altri, di Bette Tavecchia e Maria Antonella Fusco per Electa.

Marcantonio Raimondi – La Circoncisione (da Dürer – Vita della Vergine) – Bulino su rame – 1506-1509 – su carta vergellata – mm 21.5×29.4

4 pensieri su “I bulini di MARCANTONIO RAIMONDI tra riproduzione, contraffazione e interpretazione

    1. Grazie della segnalazione!! Che gioia! Ero abbastanza certa che fosse un autore del primo Ottocento, ma le mie ricerche non avevano dato risultati. Come ha fatto? Conosceva l’incisione o e’ arrivato per caso sul sito di quella collezione? Non sa come mi ha fatto felice, grazie ancora

      "Mi piace"

      1. Non ho nessun merito, ho solo usato google lens 🙂

        Allora completiamo il lavoro: come legge nel link è citato Biagio Martini “Inventore”, infatti il soggetto riprende in controparte questo disegno preparatorio di Biagio Martini (andare in fondo alla pagina):

        https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0800636217

        che, come dice la scheda, è un bozzetto preparatorio del dipinto con la “Deposizione” per la chiesa di s. Caterina dei Cappuccini a Parma. Sarebbe quindi da trovare un’immagine in rete del dipinto per chiudere il cerchio.

        "Mi piace"

Lascia un commento