Nel segno della Scapigliatura: le acqueforti di LUIGI CONCONI

Luigi Conconi 3bisChi ha sentito parlare degli Scapigliati associa questo nome all’ambito letterario milanese degli anni post-unitari; eppure nel gruppetto di questi bohemièns che hanno vivacizzato e scosso la società milanese dagli anni Sessanta agli anni Ottanta dell’Ottocento troviamo anche pittori, scultori e architetti e non solo letterati. Squattrinati, sregolati, anticonformisti ed eccessivi nella vita e nelle passioni, sapevano passare con disinvoltura dalle soffitte ammuffite dei loro atelier alle sontuose dimore dei pochi (ma sceltissimi) aristocratici che condividevano con loro la ricerca di emozioni forti, la trasgressione alla noia e alle regole sociali e che spesso e volentieri li mantenevano. Era una singolare confraternita meneghina di dandy e di bohemiens.

Oggetto di valutazioni posteriori molto discordanti, la Scapigliatura nelle arti figurative è stata derubricata nel Ventennio come espressione di un tardo e polveroso romanticismo ottocentesco e solo successivamente è stata rivalutata e considerata, per la sua carica innovativa e anti-accademica, una stagione artistica importante, anticipatrice – addirittura – delle avanguardie nostrane (Divisionismo e Futurismo). Gli appassionati di pittura ottocentesca raramente ne hanno un opinione tiepida: o la amano o la detestano. Forse per le tematiche proposte, che oggi possono sembrare eccessivamente sdolcinate, o anche per la sola – e inconfondibile – tecnica pittorica che caratterizza i dipinti degli Scapigliati, una pennellata sfioccata che dissolve le forme e richiama quella impressionista (pur essendone profondamente lontana nei presupposti) se non fosse che, al contrario, ci immerge in un’atmosfera ombrosa, intimista e melanconica.

Al di là di valutazioni estetiche o di gusto (che possono trovare conferma alla GAM di Milano, nella quale sono conservati alcuni  dei capolavori dei suoi più autorevoli esponenti, Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni), resta innegabile l’interesse per le personalità dei suoi protagonisti, figure fuori dagli schemi in un’epoca di rigide regole sociali e di moralismo benpensante. Fra queste personalità spicca anche quella di Luigi Conconi (1852-1917), poliedrico esponente della seconda generazione degli Scapigliati ma anche unico artista che ha tradotto con le tecniche incisorie, in un’epoca in cui queste erano un mezzo espressivo molto poco praticato in Italia, la vaporosità della pennellata e la sfocatura della forma che caratterizzavano la pittura scapigliata. Di Luigi Conconi possiedo una bella acquaforte (purtroppo di tiratura postuma e sicuramente non fra quelle sue più significative) che mi dà il destro per ricordarne sia la bravura che le novità tecniche ed espressive introdotte nell’incisione all’acquaforte, tali da inserirlo a pieno titolo fra i più importanti incisori italiani.

Diplomatosi in Architettura al Politecnico di Milano, di quindici anni più giovane dell’amico Tranquillo Cremona e oggi molto meno noto di lui al vasto pubblico, condivise con il gruppo degli Scapigliati le sue prime esperienze pittoriche, frequentando Daniele Ranzoni, Luca Beltrami (l’architetto al quale dobbiamo il restauro del Castello Sforzesco e della Torre del Filarete) e il rampollo della nobile famiglia Pisani Dossi, committente tra l’altro di uno dei suoi pochi progetti architettonici andati a buon fine e realizzati, la villa Pisani Dossi sopra Como. La sua carriera artistica è segnata in effetti, fin dagli esordi, dall’impegno in ambiti diversi: architettura, pittura, incisione, illustrazione, grafica pubblicitaria. Ma l‘architettura fu il sogno di tutta la sua vita (scrive Giolli nel saggio a lui dedicato, scritto nel 1920 poco dopo la sua morte), una passione che trovò solo sporadiche occasioni per esprimersi.

Pur cercando di affermarsi come architetto negli anni in cui Milano attraversava un periodo di grande fermento urbanistico e architettonico (la realizzazione del Foro Bonaparte e di via Dante all’interno del Piano Beruto del 1889), Conconi infatti riuscì ad ottenere solo faticosamente e saltuariamente qualche incarico, a fronte della partecipazione a numerosissimi concorsi, nei quali si distinse sempre per l’originalità del progetto, ma nei quali vennero sistematicamente premiate soluzioni più tradizionali. E’ suo l’edificio al civico 8 di via Dante, forse il palazzo più originale della via per la presenza moderna di pilastri in ferro e di una grande vetrata. Tra l’altro, una delle sue prime prove all’acquaforte del 1877 è proprio dedicata all’architettura, si intitola Cortile di Palazzo Marino ed è un omaggio all’architettura dell’Alessi.

Il Cortile di Palazzo Marino (2)

Lo ammetto, mi commuovono sempre le storie di architetti dotati e carichi di speranze (ma forse senza le aderenze giuste) che si scontrano con la perenne italica penuria di incarichi, partecipano con fatica ed entusiasmo a concorsi di architettura che poi inspiegabilmente non trovano sbocco o nei quali riescono ad ottenere solo qualche menzione d’onore ufficiale. E ancor più mi intrigano gli architetti/incisori, nei quali in effetti ogni tanto mi imbatto (Luigi Rossini, Frank Brangwyn)… Forse il connubio architettura-incisione non è così raro, certo è un tema che meriterebbe un approfondimento … Nel caso di Conconi è sicuramente un bene che il mancato lavoro d’architetto gli abbia lasciato il tempo per dedicarsi all’incisione, un campo espressivo perfetto per incanalare le esuberanze della sua fantasia. Guido Martinelli, in un articolo su Emporium del 1897, ne fa un ritratto di artista stravagante: 

Luigi Conconi è lui: non si può confondere con nessuno. Non vi è alcuno che lo avvicini e che possa in certi istanti assomigliarli (…) non vi è alcuno che lo agguagli in fantasia, in bizzaria, nella frondosa, ricca, variatissima germinazione ed efflorescenza di idee, di figurazioni, di creazioni (…) E ancora:(…) nei suoi lavori rivela un gusto specialissimo per tutto quanto sa di macabro, di orrido, di infantilmente pauroso.

A conferma di ciò basterebbe il suo autoritratto all’acquaforte (Vita contemplativa, in cui si mostra come una sagoma proiettata in controluce su un muro popolato di insetti e lucertole), ma sono numerose le incisioni che hanno per soggetto temi legati al fantastico.

Gran parte della sua produzione di fogli incisi fu regalata all’amico scrittore Carlo Pisani Dossi, con il quale condivideva il gusto per il romanzo gotico e per il macabro, oltre che la passione per stranezze e curiosità (animali impagliati, reperti archeologici, mirabilia). Ognuno dei due aveva raccolto e collezionato in una specie di wunderkammer ottocentesca oggetti disparati e strani: la collezione di Dossi è ancora esistente nella sua dimora nobiliare a Corbetta; di quella di Conconi, invece, raccolta nel suo stravagante studio atelier nel Palazzo Spinola di via San Paolo, possiamo farcene solo un’idea leggendo ancora l’articolo di Martinelli e guardando le foto scattate da Emilio Sommariva nel 1918 (dal sito http://www.lombardiabeniculturali

Dal soffitto pendono pipistrelli morti polverosi e secchi; sui muri, sugli stipiti delle porte si disegnano paurose e ghignanti le mummie di gatti e di puzzole disseccate sui tetti; lungo le pareti, su tavoli pelli di lucertola, ramarri, sorci, rane, insieme a teschi funebremente bianchi, civettoni, gufi e negli angoli i più strani ghiribizzi che mania di collettore abbia potuto accumulare nelle ricerche delle tombe etrusche e negli scavi preistorici … Un orologio col quadrante dipinto a teschi e coi pesi a foggia di osso di morto e di mummia di pipistrello è stato poi riprodotto in una delle sue acqueforti

Conconi coltivò l’attività incisoria in parallelo con quella pittorica: temi e soggetti cari alla pittura scapigliata, come i ritratti  – maschili e femminili – della propria ristretta cerchia di amicizie sono resi secondo modalità che non sono solo descrittive ma rispondono ad un intento emotivo o di lettura psicologica. Il tocco pittorico viene tradotto all’acquaforte in segni evanescenti, la morbida sfocatura dei contorni viene resa anche attraverso una particolare inchiostrazione della lastra.

Si tratta di quello che viene tecnicamente chiamato il monotipo: la lastra è incisa in parte all’acquaforte, ma gli effetti sfumati o i chiaro-scuri sono realizzati con l’inchiostro direttamente sulla lastra. Come indica il termine, dal monotipo è possibile ottenere solo un esemplare stampato, perché l’inchiostro applicato sulla superficie della lastra viene immediatamente assorbito dal foglio durante la stampa. Per Conconi quindi l’incisione su rame con le morsure era spesso solo una base da completare poi pittoricamente nella fase di inchiostrazione. Come spiega Liliana Menta (in Luigi Conconi incisore, edito da Federico Motta, 1994)

Durante la fase di inchiostrazione della matrice stendeva l’inchiostro sulla lastra come se l’uno fosse il pigmento e l’altra la tela. Da un certo momento della sua carriera, dal 1878 secondo Luca Beltrami, ha fuso la disciplina pittorica e quella grafica. Perché l’immagine risultasse chiaramente leggibile, era necessario che, per ogni tiratura, i segni incisi sulla lastra fossero completati con l’inchiostrazione a monotipo. Quando i soli strumenti non garantivano l’effetto ricercato, interveniva direttamente con le dita, come rilevano le impronte digitali visibili su alcuni esemplari.

Questo è il motivo per cui vi sono esemplari della stessa acquaforte molto diversi, come si vede ne L’onda;  ed è anche il motivo dei suoi ripetuti fallimenti ai concorsi della Calcografia Nazionale, dove era richiesto l’invio del rame e non dell’incisione.

20200925_182022La firma su molti dei suoi monotipi – bella e inconfondibile – non è incisa, bensì realizzata asportando l’inchiostro fresco. Proprio per l’importanza dell’inchiostrazione, Conconi eseguiva personalmente la stampa dei suoi rami: nello studio di via San Paolo aveva il grande e antico torchio lasciatogli dalla Famiglia Artistica, della quale era stato socio fin dal 1881, quando aveva partecipato attivamente alla Indisposizione Artistica, burlesca e irriverente risposta all’ufficialissima Esposizione Nazionale Milanese dello stesso anno.

Proprio di un anno precedente all’Esposizione Nazionale è la mia acquaforte, come risulta inciso in alto a sinistra insieme alla firma. E’ conosciuta con nomi diversi: Le parlate d’amor, oppure Rose, oppure ancora Gruppo di rose con note musicali e si ispira all’atto III del Faust di Gounod, andato in scena al Teatro alla Scala nel 1880. Nell’incisione sono riportate alcune note dell’opera e del testo: Siebel, innamorato di Margherita e rivale di Faust, si rivolge ai fiori in un giardino di rose: Le parlate d’amor – o cari fiori – ditele che l’adoro – che il solo mio tesor – ditele che il mio cuor – langue d’amor! Nell’acquaforte le rose alludono quindi sia all’ambientazione della scena sia al messaggio d’amore per Margherita; la scelta del soggetto si colloca perfettamente nello spirito della Scapigliatura, alla ricerca di sinergie fra tutte le arti espressive, la parola, il suono, l’immagine.

Dicevo che il mio esemplare è una tiratura postuma di valore commerciale quasi nullo: sul retro infatti è incollata un’etichetta che riporta la scritta incompleta Dono – Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, via Turati 34 e la scritta a mano Rose – di Luigi Conconi – da lastra originale di proprietà della Società BB.AA. In effetti la lastra risulta nell’inventario del 1957 della Società per le Belle Arti anche se non si sa come sia arrivata nella collezione, se per dono dell’autore stesso o per il lascito di qualche ammiratore dell’artista. Peccato che nell’archivio dell’Ente non risultino ad oggi informazioni ulteriori sulla consistenza e sull’anno di questa tiratura postuma. La gentilissima responsabile dell’archivio della Permanente mi ha segnalato che certamente è successiva al 1953, anno in cui è stato riaperto il palazzo in via Turati (che tra l’altro prima del 1951 si chiamava via Principe Umberto e poi via Albania) e che, in occasioni particolari, era in uso presso l’Ente di fare dono di acqueforti ai soci emeriti, anche con tirature realizzate in proprio, visto che la Permanente aveva un suo torchio. Dal sito grafiche in comune  risulta che alla Raccolta Bertarelli sono conservati tre esemplari di questa acquaforte; uno di questi reca sul retro un’etichetta simile alla mia, datata 1967, probabilmente l’anno della tiratura.

Gli altri due esemplari sono invece coevi, visto che uno apparteneva alla raccolta di Pompeo Mariani (artista coetaneo e amico di Conconi) acquistata nel 1934 e l’altro perviene alla Raccolta Bertarelli come Dono dell’Esposizione Permanente nel 1915. La Raccolta Bertarelli conserva oggi comunque esemplari della quasi totalità dell’opera incisa di Conconi.

Per saperne di più: Luigi Conconi incisore – a cura di Matteo Bianchi e Giovanna Ginex – Federico Motta editore, 1994

Luigi Conconi – Le parlate d’amor – 1880 – acquaforte unico stato – tiratura postuma (1967?) – 182 mm x 254 mm – carta senza filigrana 350 x 495 –

2 pensieri su “Nel segno della Scapigliatura: le acqueforti di LUIGI CONCONI

  1. Interessanti notizie che non conoscevo, o quasi. Grazie.
    Una volta mi capitò di vedere in un catalogo d’asta un’acquaforte “di” Tranquillo Cremona. In basso a sinistra la sigla TC. Però a destra vi era un’altra sigla: LC. Interpretai LC come Luigi Conconi e segnalai la cosa alla casa d’aste. L’acquaforte era quasi certamente di Conconi su disegno di Cremona. Una casa seria: dal giorno seguente il pezzo scomparve dal catalogo.

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    1. Grazie come sempre dei tuoi interventi. I legami fra Cremona e Conconi in effetti furono strettissimi. Ho letto che Conconi è arrivato giovanissimo nello studio di Cremona attraverso il fratellastro di quest’ultimo, che era suo insegnante al Politecnico. Cremona desiderava un assistente per eseguire in proprio delle litografie di suoi disegni per svincolarsi dagli accordi presi con l’Editore Sonzogno e Conconi era ai tempi già un bravo incisore. L’acquaforte di cui parli potrebbe riferirsi a questo periodo.

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