Come collezionista di stampe ho sempre evitato di acquistare litografie. Questa definizione tecnica infatti è ambigua: la stessa parola puo’ denotare in realtà due diversi procedimenti di preparazione della matrice per la stampa, con differenti valori artistici ed espressivi. Può esserci l’intervento diretto dell’artista, che decide di esprimersi attraverso questo mezzo espressivo e lavora personalmente sulla lastra litografica dalla quale, con un processo chimico, vengono tirate le copie (la genesi dell’opera, quindi, prevede fin dall’inizio l’utilizzo di questa tecnica). In questo caso si parla di litografia originale. Oppure può succedere che l’artista, per motivi commerciali, decida di riprodurre su carta una propria opera nata utilizzando un altro mezzo espressivo e magari anche un altro supporto non cartaceo. In questo caso l’immagine originale viene trasportata sulla lastra litografica con procedimenti meccanici e l’artista, nella migliore delle ipotesi, si limita solo a visionare le prove di stampa per approvarne la qualità o i colori o a firmare i multipli (se la tiratura è fatta quando è in vita). Altrimenti si parla di litografie d’après che oggi rispondono a logiche di mercato, più che a logiche creativo-artistiche. Ma queste ultime non sono litografie originali, bensì semplici riproduzioni (anche se di buona qualità) e dovrebbero avere perciò un bassissimo costo. Purtroppo non sempre è così, c’è anche chi gioca sull’ignoranza. Da qui la grande confusione che porta chi non è un esperto a non comprendere perchè sul mercato è possibile trovare una litografia di Picasso a migliaia di euro e un’altra a un centinaio soltanto. Pur informandomi e studiando la materia non mi considero ancora un’esperta: da qui la decisione di acquistare prevalentemente acqueforti, per le quali il problema dell’autografia quasi non esiste.
Questo lungo preambolo è necessario per presentare questo acquisto non proprio programmato: è stata infatti una sorpresa legata all’acquisto fatto in asta dell’acquaforte di Rops (di cui ho recentemente scritto qui), con un effetto su di me simile a quello – credo – di chi acquista una vecchia casa in campagna e scopre poi nella soffitta un dipinto importante dimenticato. Questa litografia originale (ebbene sì!) di Delacroix era infatti inserita nello stesso lotto, ma descritta come riproduzione di un’opera di Delacroix, ovvero, per chi leggeva, di valore pressocchè nullo. Solo al ritiro della cartella che conteneva entrambe le stampe mi sono accorta della differenza.
Si tratta in realtà di una litografia originale di Delacroix realizzata, insieme ad altre 16, per illustrare la prima edizione francese del 1828 tradotta da Albert Stapfer del Faust di Goethe. E’ l’editore parigino Charles Motte ad avere l’idea di coinvolgere l’artista, senza per altro dover faticare molto per convincerlo. Va detto che nei primi decenni dell’Ottocento un po’ in tutta Europa si assiste alla fascinazione dei pittori per le opere letterarie ma Delacroix in particolare è appassionato del mito di Faust e, oltre a questa serie di litografie, ha dedicato a questo soggetto così intrinsecamente romantico molti altri disegni, bozzetti, studi e dipinti, nell’arco di tutta la sua carriera artistica. Ho letto che già nel 1825 il giovane pittore, in un soggiorno a Londra, aveva avuto occasione di vedere una rappresentazione teatrale tratta dal Faust, rimanendone a dir poco affascinato, e che nel 1827, al Salon di Parigi aveva esposto accanto alla grande tela Morte di Sardanapalo anche una piccola tela intitolata Mephistophele apparissant à Faust.
Proprio l’anno precedente, nel 1826, aveva ricevuto la proposta di lavorare per l’edizione illustrata dell’Opera di Goethe. E’ probabile che questa proposta gli fosse sembrata una buona opportunità in una fase personale di sconforto per le critiche poco generose che le sue opere pittoriche ricevevano in quegli anni dalla critica. Due anni prima aveva esposto il dipinto Il massacro di Scio che era stato aspramente criticato: gli veniva contestata la troppa foga nella pennellata a scapito della rifinitura, l’applicazione «rozza» del colore e la mancanza di disegno delle figure. Stendhal aveva considerato l’opera mediocre e sragionevole, Ingres arrivò a definirla la febbre e l’epilessia dell’arte moderna, Jean Gros arrivò a definire il dipinto il massacro della pittura.
L’editore che gli avanza questa proposta è Charles Motte, un personaggio decisamente particolare: litografo per il Duca d’Orléans, aveva nel 1823 ricevuto una medaglia per l’invenzione di un macchinario di stampa veloce e preciso che permetteva la tiratura di litografie di ottima qualità; è anche grazie al suo impegno se si andava diffondendo velocemente in Francia questa nuova tecnica di stampa che affascinava molti artisti dell’epoca e che aveva alle spalle solo due o tre decenni di sperimentazioni, essendo nata alla fine del Settecento. Motte stesso, per reclamizzare la propria macchina delle meraviglie, scriveva che (…) la litografia, come l’acquaforte, non produce che degli originali, e traduce su pietra l’impronta della mano, il carattere, lo spirito o il genio che l’ha prodotto, al contrario delle incisioni di riproduzione. Molti artisti francesi nella prima metà dell’Ottocento si fanno affascinare da questa nuova tecnica (Gericault ne è un esempio).
L’entusiasmo dell’editore fa coppia con l’entusiasmo dell’artista nei confronti di questo nuovo mezzo espressivo: Delacroix sperimenta materiali e procedure nuove per raccontare su pietra il mondo notturno e infernale di Goethe, popolato da figure tormentate dalle passioni; fa appello a tutta la sua fantasia e la sua ingegnosità, non esitando a scurire vigorosamente di nero la matrice litografica e a sperimentare, alla ricerca di effetti espressivi potenti, l’utilizzo di una punta per graffiare la superficie e far emergere i tratti bianchi dal fondo scuro. La tecnica del grattoir ha delle affinità con la maniera nera utilizzata successivamente da Redon o da Fantin-Latour, che in effetti guarderanno con molto interesse alle sue sperimentazioni. Di sicuro in quegli anni non c’è stato nessun artista che ha sperimentato in questo modo e con questa libertà espressiva la nuova tecnica della litografia: Delacroix trasferisce nel segno grafico la stessa matericità e pastosità delle sue pennellate sulla tela, anche se – confesso – non tutte le 17 litografie hanno per me la stessa qualità inventiva. Fortunatamente quella che mi è capitata in sorte è quella che reputo anche la più interessante, L’ombre de Marguerite apparissant à Faust, nella quale emerge tutta la fantasia immaginifica del pittore: dal fondo buio emergono mostri, creature infernali, serpenti e diavoli che tengono per i capelli l’anima della povera Marguerite, morta per colpa di Faust.
In un primo tempo Delacroix chiede a Motte che le sue illustrazioni siano raggruppate e separate dallo scritto, poi l’editore riesce a convincerlo a inserirle fra le pagine del testo e addirittura ad apporre in basso una frase del testo originale. Il risultato entusiasma lo stesso Goethe, che nel 1827, quando riceve le prime tavole, scrive: (…) Delacroix è un artista di grande talento, che ha trovato nel Faust il pascolo che gli è più congeniale. I francesi gli rimproverano l’eccessiva foga; ma qui è perfettamente a suo agio (…) dissi che illustrazioni di questo tipo avrebbero contribuito molto alla comprensione del poema, ma la questione non si pone più, perchè la potente immaginazione di quest’artista ci obbliga a ri-immaginare le scene così come le ha pensate lui stesso (…) Delacroix ha sorpassato la mia propria immaginazione. Peccato che sia stata l’unica, solitaria, voce ad apprezzarle, mentre la critica e il pubblico, ancora una volta, le massacrano.
Come spesso succede alle grandi opere d’arte, oggi invece questa pubbicazione viene considerata il libro illustrato di maggiore qualità dell’epoca moderna. Cercando in rete ho scoperto che ci sono state diverse edizioni successive alla prima di Motte del 1828: una seconda di Villain nel 1843 (?), una terza dell’editore Vayron e una quarta di Goyer e Hermet. La mia litografia appartiene alla terza edizione ma non sono riuscita ancora a stabilire con certezza l’anno di pubblicazione. Qualcuno scrive prima del 1873, io non ho trovato notizie sulla tipografia Vayron se non negli anni che vanno dal 1855 al 1865. Con grande emozione ho scoperto però che proprio questa edizione è conservata nella collezione del British Museum. Tra l’altro credo si tratti di una prova di stampa, perché la litografia ha ampi margini e il foglio è di grande formato, maggiore delle dimensioni del libro.
Per chi volesse approfondire: Eugène Delacroix. The Graphic Work a Catalogue Raisonné di Loys Delteil
